La prendo larga: i compiti non
piacciono a nessuno ma a volte capita di doverli svolgere anche se non si
vorrebbe.
I compiti dell’esistenza, poi, a volte sono fastidiosi.
L’arte, in teoria, dovrebbe avere il
compito di ampliare i limiti della coscienza. Questa frase è già stata
pronunciata in diversi ambiti, ma credo sia utile farla diventare un mantra.
I
cantautori, nello specifico, hanno provato varie volte ad espandere la
coscienza, parlando di realtà sociale o di realtà quotidiana, che dir si
voglia, dando vita ad una delle forme d’arte più interessanti del secondo
novecento. Vero.
Con il passare del tempo però il loro
discorso si è attorcigliato nella tela della retorica e ha confuso il parlare
del proprio ombelico con il condividere le proprie emozioni.
Fortunatamente però si trova in giro
ancora qualcuno che si pone l’obiettivo di opporsi a questa situazione, nei
fatti, dando vita ad un’opera di grande impatto.
E’ Gianandrea Verner Esposito, che non più di un mese fa ha pubblicato
un album cantautorale di spessore: Fiori dal limbo (La Pupilla Records).
Lirico, umano, caldo, acustico ed emotivo.
Verner è riuscito ad impastare le
proprie emozioni fondendole nello spazio d’aria che rimane tra il testo e la
musica, originando canzoni in grado di contattare la pancia di chi si mette in
ascolto.
Sono canzoni che fanno da eco al
suono del proprio stomaco e tentano di scalfire la zona grigia che si insinua
nei rapporti interpersonali. Senza retorica, con profondità.
A lui la parola.
Partiamo dal titolo: Fiori dal limbo. Un titolo particolare, evocativo. Limbo è un concetto che rasenta anche
l’ambito religioso. Come mai hai deciso di intitolare così questo album?
Mi interessava molto di più l’aspetto
esistenziale del limbo che quello religioso. Non è stata una scelta facile,
temevo che “fiori dal limbo” suonasse etereo e pretenzioso, ma era il titolo
che meglio rappresentava queste canzoni, che sono un po’ figlie di una “terra
di mezzo”. L’elemento terra ritorna spesso nel disco, anche in titoli come
“terra dei miracoli” e nel finale “questa è la mia terra”, e l’idea dei fiori
come prodotto della terra mi sembrava potesse aiutare a vedere queste canzoni
non come un tentativo di ripiegare su stessi, ma anzi come l’esatto contrario,
una sorta di reazione all’immobilismo.
Ad un primo ascolto l’album sembra un discorso amoroso, con tutte le sue
sfaccettature. Che cosa ti ha fornito l’ispirazione per i testi?
Mi piace molto questa
interpretazione, in effetti il testo di molte canzoni si sviluppa come fosse un
dialogo, ma non solo di natura amorosa e in alcuni casi ho volutamente lasciato
una certa ambiguità nel definire se il dialogo fosse tra due persone o si
trattasse di una dialettica interna a un personaggio. In “cose semplici”, per
esempio, si tratta più di una sorta di dialogo immaginario tra un adulto e il
suo se stesso bambino. Per la scrittura dei testi ogni canzone ha la sua storia
e gli stimoli possono venire da qualsiasi direzione. Credo che molti brani rappresentino
il tentativo di reagire al generale senso di ansia e di assopimento che si è
respirato nella nostra società negli ultimi anni.
Le musiche alternano un ritmo dolce pop-rock e suoni acustici. Che cosa
ti ha portato a seguire questo tipo di sonorità?
Tutte queste canzoni sono nate dalla
chitarra acustica. Ho seguito direttamente la produzione artistica, anche se
con l’aiuto di diverse collaborazioni, e quindi le sonorità del disco sono il
risultato di una ricerca che è durata un paio d’anni e che mi ha portato a
usare anche strumenti nuovi per me, come l’armonio indiano, ma soprattutto con
una maggiore presenza di chitarre elettriche.
Hai riascoltato l’album una volta finito? Che cosa ti ha comunicato?
Una grande soddisfazione, mi piace
molto e non ero sicuro di riuscire a finirlo.
Cosa vorresti comunicasse agli ascoltatori?
Mi piacerebbe che queste canzoni
comunicassero una voglia di “risveglio”, in tutte le sue possibili
accezioni.
Quando hai deciso di diventare musicista?
Si decide o è un po’ come una
malattia incurabile? A dodici anni ho imbracciato per la prima volta una
chitarra e da allora la musica è stata una parte fondamentale della mia vita.
Quali dischi hanno influenzato di più il tuo modo di pensare la musica?
Molto difficile parlare di influenze
dirette, provo ad accostarmi ad ogni genere e sono diventato un ascoltatore un
po’ dispersivo. Ascoltare una bella canzone ti fa venire voglia di scrivere.
“Solo un temporale” è venuta fuori dopo aver ascoltato un brano di Capossela.
Quali libri hanno influenzato, invece, il tuo modo di vedere la vita?
Sono sempre stato un lettore
abbastanza vorace e i libri che mi hanno cambiato sono tantissimi. Ultimamente
diversi scritti su teorie di fisica (a livello molto divulgativo) e sulla psicologia
di Jung mi hanno colpito molto.
Cosa è per te la musica?
La musica per me rappresenta le ali
che ho scelto per volare.
Occidente
Il mio preferito e "Solo un temporale" - acustico e commovente
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