domenica 15 novembre 2015

Tavola Calda: Radio Nuova York! Intervista a Ricky Russo


Si definisce “the Most Enthusiastic man in New York”, ed ha  i suoi buoni motivi per farlo .  Lo percepiamo come The Most Enthusiastic man in generale ed abbiamo altrettanti buoni motivi per farlo. Nato a Trieste ma trapiantato a New York, cresciuto in mezzo a contaminazioni musicali di ogni genere Ricky Russo è un naturale diffusore di energia vitale. Ecco la sua ultima impresa: ha fondato, insieme ad Alberto Polo Cretara, una webradio con un nome dal sapore cinematografico, Radio Nuova York, concepita come la radio di tutti gli italiani che per varie ragioni sfiorano la Grande Mela o vi si trasferiscono del tutto e sono intrigati dall’hip hop e dalla musica indipendente. Se necessita qualche definizione si può dire che Ricky è conduttore radiofonico, deejay e scrittore con alle spalle un libro, Per Bon, For Real, un diario dal sapore punk sulla sua esperienza newyorkese scritto interamente in triestino. Insieme alla sorella Elisa, autrice del libro Uomini (monografia su Edda e la scena rock milanese) e giornalista, ha condotto il programma radiofonico The Russos In Orbita, trasmesso da Radio Capodistria e diffuso in streaming grazie alla rete. A New York ha intenzione però di continuare ad assorbire le vibrazioni e di diffonderle senza fermarsi, con il suo motto di sempre. In una parola: Daghe!

Come è nata l’idea di Radio Nuova York? Come si articola il progetto?
Radio Nuova York nasce da un’idea di Alberto Polo Cretara, pioniere dell’hip hop italiano e proprietario di una catena di pizzerie nella Grande Mela, Farinella Bakery. Polo mi ha coinvolto dall’inizio. Così, dalla scorsa primavera, abbiamo sviluppato il progetto assieme. Ci siamo finanziati attraverso una campagna di raccolta fondi su MusicRaiser e grazie a due eventi live, al Bowery Electric nell’East Village, in cui si sono esibiti alcuni artisti italiani importanti come Clementino, Rocco Hunt, Tre Allegri Ragazzi Morti,  Frankie Hi Nrg Mc, Roipnol Witch e Chiara Vidonis. Gli studi dell’emittente – ormai soprannominati ironicamente di “CinaCittà” – si trovano in un appartamento di Chinatown, a due passi da Little Italy e dalla Bowery, la via del rock’n’roll dove un tempo sorgeva il leggendario CBGB. Radio Nuova York vuole diventare un punto di riferimento per gli italiani a New York, soprattutto per quelli più giovani, quelli che sono arrivati in città negli ultimi anni. Lo scopo è di promuovere la cultura, lo stile e la musica italiana negli Stati Uniti, ma anche di raccontare “la città che non dorme mai” ai nostri connazionali, sparsi per il mondo. Saremo presto in onda, da qua: www.radionuovayork.com.

Domanda banale, che forse in molti ti rivolgeranno: Come mai hai deciso di ripartire a livello creativo, umano e lavorativo proprio da New York? Che cosa ti affascina di più della realtà newyorkese?
Sono cresciuto con il mito di New York. Nel 2012, ero piuttosto depresso e non vedevo grandi possibilità di svolta in Italia, così ho rischiato tutto e mi sono trasferito nella Grande Mela. Qui sono proprio rinato, ho trovato nuovi stimoli e opportunità. A New York, infatti, conta solo il futuro, il cielo è il limite e i sogni sembrano sempre raggiungibili.

Conoscerai artisti di vario genere, girando per locali. Come viene vissuta la dimensione artistica? Si respira un clima “da casta” oppure è sufficiente avere talento per potersi esprimere?
La grande differenza con l’Italia è che qua la gente ti ascolta, ti valuta seriamente e ti dà sempre una chance. Non importa di chi sei amico, chi ti ha raccomandato, per chi voti, con chi stai, di che religione sei, qual è il tuo orientamento sessuale, quanti anni hai ecc... Conta il tuo talento, la tua dedizione, la tua passione, la tua professionalità…

Musicalmente che aria si respira? In quali musicisti o festival degno di nota sei incappato?
New York è il centro del mondo, o almeno vivendoci ti sembra che lo sia. La musica è ovunque, dal Madison Square Garden alla Subway. Considera che nella Big Apple è nato l’hip hop, il punk-rock, la disco…  L’avanguardia convive con il mainstream. Ogni sera hai l’imbarazzo della scelta se vuoi andare a un concerto. Io amo tutta la buona musica, quindi mi capita di frequentare ambienti molto diversi. Spesso ho incrociato per strada alcuni miei miti, su tutti Mick Jones dei Clash e David Byrne dei Talking Heads.

Passiamo al libro: Soddisfatto dell’esperienza di Per Bon, For Real?
Tantissimo. Il libro, nato in una maniera così spontanea e naif, mi ha portato fortuna, buon karma. E seppur scritto in triestino, mi ha messo in contatto con persone e situazioni davvero interessanti. Non esagero se dico che mi ha aperto tante porte anche a New York.

Come ti vedi nel ruolo di scrittore? Ci sarà un secondo libro?
In famiglia, la vera scrittrice è mia sorella Elisa, autrice del libro sui Ritmo Tribale e sulla la scena rock milanese, “Uomini” (Odoya). Lei è un talento assoluto e naturale. Ha tecnica, cuore, visione e disciplina. La mia scrittura è molto punk-rock. Un mio secondo libro non è previsto al momento, però un mio racconto inedito, “El Funky Barboncin” è stato appena pubblicato nella raccolta “Andare in Cascetta” (A Morte Libri), in cui ci sono alcuni scrittori che stimo tantissimo, come Maurizio Blatto, Gianni Miraglia, Andrea Valentini, Manuel Graziani e Vittorio Bongiorno.

Che cosa ti ha spinto a lavorare nel mondo della Radio e del giornalismo musicale? Quando hai iniziato?
L’amore assoluto per la musica mi ha spinto nel mondo della radio e del giornalismo. Ho iniziato quando avevo 16 anni a Radio Fragola, emittente comunitaria che trasmette ancora oggi dall’ex Ospedale Psichiatrico di Trieste. Quell’esperienza fu una rivoluzione, uno shock! Fu tracciare un nuovo sentiero, cambiare direzione, andare contro la noia, l’ipocrisia, il futuro già scritto e la mediocrità!


Domanda inevitabile: Che cosa è la radio per te?
Uno stile di vita. Un modo di mettere in circolo energia positiva, musica, idee, buone vibrazioni.  Come cantavano i Bad Brains: Positive Mental Attitude.

Quali sono i libri, i film, i dischi e i musicisti che hanno avuto maggiore influenza su di te come persona?
Domanda da un milione di dollari. Troppi per citarli tutti. E sicuramente mi dimenticherò un sacco di roba. Ci provo. Nella lista dei miei preferiti: Pier Paolo Pasolini, Tiziano Terzani, Enzo Biagi, Indro Montanelli, Andrea Pazienza, Jack London, Jack Kerouac, Lester Bangs, Martin Scorsese, Quentin Tarantino, Kurt Sutter, Federico Fellini, Joe Strummer, Iggy Pop, Henry Rollins, Ramones, Elvis Presley, Johnny Cash, James Brown, Toni Bruna, i Ritmo Tribale & Edda…

Trieste/New York. Quale delle due città è più a misura d’uomo?
Trieste è la città del Cuore, degli affetti, delle radici, dei luoghi,  delle suggestioni e dei profumi stampati nell’Anima. New York è la città dell’Azione, il posto che mi fa sentire vivo! Pasolini, dopo esserci stato la prima volta nel 1966 scrisse: “New York non è una evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent'anni”.

Ultima domanda (a cui puoi anche disubbidire): Puoi riassumere in quattro punti la tua filosofia di vita?
La mia filosofia di vita è “DAGHE!”. Daghe!: dacci dentro, ma elevato per mille.Lincitamento più incitamento triestino. You only live once!


Stefano Sacchetti
(Occidente)

giovedì 24 settembre 2015

Tavola Calda: #VorreiPrendereIlTreno. Intervista a IACOPO MELIO



Chi si batte per le questioni di principio, ovvero migliorare la quotidianità di ogni singolo individuo, anche compiendo un atto estremamente concreto, come quello di abbattere le barriere architettoniche e lo fa con determinazione inserendo anche spunti creativi, è da inserire nell’elenco delle rock star.

Iacopo Melio, studente e giornalista freelance, attivista per i diritti dei disabili a pieno titolo, ha dato vita alla onlus Vorrei prendere il treno, per garantire alle persone con disabilità un accesso al mezzo di trasporto che, per eccellenza, dovrebbe essere  privo di barriere architettoniche. Il tutto con il sorriso e la battuta pronta.
Ironia e vitalità, gli ingredienti migliori per cambiare le cose.

Perchè quelli, almeno, non conoscono barriere.

Vorrei prendere il treno. Un’iniziativa dal nome eloquente, che lascia il segno. Puoi spiegare come nasce e di cosa si occupa questo progetto?
Nasce da una mia risposta all'ex ministro dell'istruzione Maria Chiara Carrozza, che scrisse su Twitter di essere in viaggio per Firenze su un treno meraviglioso, e di prendere il treno come tutti. Così le risposi facendole notare che i nostri treni purtroppo non sono quasi mai meravigliosi, soprattutto per noi disabili che raramente troviamo attrezzati. Allora decisi di prendere spunto da quello scambio di battute per scrivere un articolo sul mio blog: "Sono single per forza, non piglio l'autobus!!" era il titolo. Volevo parlare di barriere ma in maniera ironica e divertente, facendo una sorta di appello alla politica affinché potessi prendere il treno non tanto perché, in un Paese civile e democratico, dovrebbe essere un gesto scontato e spontaneo, ma perché avevo voglia di viaggiare e innamorarmi su un mezzo pubblico incontrando la ragazza dei miei sogni, come in un film. L'articolo divenne virale e si creò una campagna mediatica spontanea... Tanto che ho deciso di fondare una onlus dal nome appunto "Vorreiprendereiltreno" con l'intento di sensibilizzare all'accessibilità.


Come fare per evitare le eventuali strumentalizzazioni da parte del mondo politico?
Sono in pochi quelli disposti ad aiutare per niente. Credo che se una persona ti aiuta in un progetto e porta a dei risultati concreti, sia giusto anche dar loro il merito e il giusto "ritorno" (ad esempio in visibilità). Il rischio di essere strumentalizzati a vuoto ovviamente è sempre alto, ma se uno non avesse fiducia e si chiudesse a riccio, per difesa, non combinerebbe sicuramente niente.

Che evoluzione pensi possa avere questa iniziativa?
Sicuramente #vorreiprendereiltreno è un ottimo canale per sensibilizzare. Siamo quasi a 1000.000 contatti social e abbiamo un'ottima risonanza mediatica a livello nazionale. Se sfruttata questa visibilità in modo positivo possiamo portare avanti dei progetti interessanti per abbattere concretamente le barriere del territorio: ovviamente in questo le persone devono essere completamente disponibili e partecipi, sostenendoci, tanto quanto le amministrazioni.

In che modo è possibile combattere il pregiudizio?
Semplicemente facendo vedere alle persone come stanno le cose, facendoli cioè entrare in determinati "mondi", per comprendere. La comprensione abbatte l'ignoranza, ed è solo da quest'ultima che nascono i pregiudizi. Quando qualcuno "sa", allora riesce a trattare le cose come devono essere trattate. Noi
di #vorreiprendereiltreno vogliamo parlare di disabilità nel modo giusto, secondo il mio punto di vista: ironico, solare, divertente e spudoratamente "normale". La compassione e la tristezza sono i peggiori atteggiamenti che si possano adottare nei confronti della diversità, e quindi i pregiudizi sarebbero in questo caso inevitabili.

Traccia un breve ritratto di quello che sei, con i tuoi desideri e le tue aspirazioni.
Ho 23 anni e studio Scienze Politiche a Firenze, indirizzo in "Comunicazione, Media e Giornalismo". Amo infatti l'arte ed ogni forma di espressione, in particolare la fotografia e la scrittura. Quest'ultima vorrei, in futuro, fosse anche il mio lavoro o almeno una parte di questo. Spero infatti di poter avere un impiego, un domani, che mi permetta di aiutare gli altri, che sia a livello sociale/politico o attraverso la comunicazione, fungendo da megafono per chi non viene ascoltato.

Quali sono i tuoi punti di riferimento culturali?
Musicalmente, ma soprattutto ideologicamente, i miei pilastri sono De André e Guccini. Don Gallo e Peppino Impastato restano i miei punti di riferimento per l'impegno civile e sociale, così come Falcone e Borsellino. Pasolini e Bukowski, infine, per la cultura anticonformista e per un certo anarchismo terreno.

Ci ha da poco lasciati Franco Bomprezzi, scrittore, giornalista e attivista in prima linea per quanto riguarda la questione della disabilità. Che ricordo hai di lui?

Franco è stato uno dei primissimi giornalisti ad aver parlato di me e #vorreiprendereiltreno, e forse l'unico ad aver "disegnato un quadro di me" assolutamente perfetto, comunicando cioè quello che ho sempre voluto trasmettere o fosse trasmesso. Ho avuto l'onore di scambiare con lui poche chiacchiere virtuali, ed è una delle cose che più mi fa male in vita mia... Avevamo progettato infatti di conoscerci di persona e sono certo avremmo potuto, insieme, realizzare tantissime cose meravigliose. Adesso non mi rimane che il suo esempio, fondamentale, e la voglia di poter in futuro almeno lontanamente avvicinarmi a ciò che lui è stato: un grande uomo, un immenso giornalista, e uno straordinario lottatore. "A muso duro" Franco!

Stefano Sacchetti 
(Occidente)

giovedì 10 settembre 2015

Tavola Calda: ESSERE ARMONIA. Intervista a LUCIANO PELLEGRINI

Il concetto di armonia rimanda subito a territori astratti, che lasciano spazio alla fantasia, al sogno di un’esistenza bilanciata, in equilibrio. Per molti la ricerca dell’armonia ha il valore utopico della  fuga dalla realtà, per altri, tra cui lo scrittore Luciano Pellegrini è l’immersione totale nell’essenza della realtà.  

A  lui la parola, a voi la lettura.



Luciano, è poeta, scrittore, critico letterario. Che cosa la spinge ad incanalare la scrittura in queste tre forme?
La mia spiccatissima e travolgente  sensibilità mi ha sempre portato oltre la quotidianità. Da qui, la ricerca personalissima in risposta alle vicissitudini e allo “status umano”. In questo senso, la mia poesia è rivolta alla condizione umana universale, la mia narrativa è sempre basata su problematiche delle persone disabili – oltre che su meditazione, filosofie varie e religioni - la mia critica infine punta all’aspetto dell’estetica nella poesia, nella  letteratura e nell’arte in genere: tenendo conto della cultura classica fino al romanticismo, dal simbolismo al surrealismo, dall’ermetismo alle forme espressive odierne.

Che cosa è per lei la scrittura?
Un’attività che coinvolge sensazioni, emozioni, desideri, ricordi, modi di pensare della persona. Essa è sempre in reazione a quanto accade nel corso dell’esistenza: momenti intensi, individualmente ricchi di significato – nel bene o nel male - che si tenta di “fermare” e  trasmettere in base alla propria capacità, sensibilità, corredo culturale e letterario.

Quando è avvenuto il suo incontro con la scrittura?
Durante le scuole superiori ho avuto coscienza di essere portato per le materie umanistiche nonostante facessi un Istituto Tecnico, come la Ragioneria. E in italiano mi trovavo a mio agio. Divoravo le antologie e durante le ricreazioni spesso mi ritrovavo a scribacchiare su un quaderno. Questo, non è sfuggito alla mia professoressa di italiano che ha voluto vedere e mi ha incoraggiato a continuare. Notando i suoi occhi commossi ho capito che potevo fare qualcosa in questa direzione. La passione è poi aumentata, ho pubblicato diversi libri di poesia, narrativa e saggistica, partecipato – spesso vincendoli – a premi letterari, mi sono laureato in Lettere con il massimo dei voti e lode nonostante lavorassi ed avessi famiglia. Da 30 anni faccio parte di giurie.

Quali sono i suoi punti di rifermento artistico/letterari?
A partire da Leopardi, passando per Baudelaire, Rimbaud ed i surrealisti, fino all’ermetismo per arrivare a Luzi e Sanguineti, che ho conosciuto personalmente. 

Ha fondato l’associazione <<L’Essere Armonia>>, ci parli dettagliatamente dell’idea che la sostiene.
“Nata nel 2000, La A.L.E.A. (Associazione “L’essere Armonia”) è un’associazione di promozione sociale - regolarmente iscritta nel registro regionale - che ha come scopo principale quello di divulgare  l’idea di vivere senza barriere mentali e comportamentali, le quali, prima ancora ed in maniera più incisiva, di quelle fisiche ed  architettoniche, ledono il benessere individuale e collettivo. E’ attiva in vari progetti anche in collaborazione con altre realtà associative ed enti, nei settori della disabilità, artistici e letterari.  La ALEA è sempre stata all’avanguardia su molti fattori. Ad esempio diversi anni fa tutti parlavano di barriere architettoniche e venivo guardato strano perché  affermavo: “La barriera più grande è culturale, cambiamo modo di pensare e di comportamento e automaticamente scompariranno quelle architettoniche!”. Oggi invece è un concetto comune, accettato e compreso.

Nel 2006 ha prodotto e interpretato un fotoromanzo, dal titolo La scommessa, incentrato su diverse problematiche delle persone con disabilità. Che ricordo ha di questa esperienza?
Fu un lavoro lungo, meticoloso e straordinario, portato avanti con passione e consapevolezza. Io e i miei amici volendo dare segnali forti a molti pregiudizi incombenti su persone disabili lo vedemmo come un efficace modo per presentare certe problematiche. Così, visto che, in Italia si legge poco, trasmutammo un mio racconto, consapevoli che una immagine esprime più di molte parole. Fra fare le foto, assemblarle, metterci dialoghi e didascalie c’è voluto un anno di lavoro.

Come vede l’introduzione della figura dell’assistente sessuale? In che modo si riusciranno ad abbattere i pregiudizi che ruotano attorno alla dimensione della disabilità?
Direi che la creazione (finalmente) di questa figura è un passo avanti contro certe mentalità intrise di pseudo religiosità e tortuoso moralismo. Mi sono sempre messo in  prima fila in questo. Le persone disabili hanno desideri, tendenze e passioni simili a quelle dei cosiddetti normodotati. Oggi, nonostante si viva in una società definita civile, è ancora inconcepibile – per molti - il binomio disabilità e amore o sesso: nel senso che quando una  coppia è formata da una persona disabile ed una normodotata il pensiero comune non porta a pensare ad un rapporto d’amore  bensì “E’ ricco/a quello/a”, “E’ un/a parente, fratello, sorella”, “E’ un/a badante o un/a volontario/a”. Credo comunque che con un profondo e moderno senso civico condiviso tra il mondo del volontariato, istituzioni e famiglie si possano davvero fare grandi e concreti passi avanti. Tuttavia, per esperienza, so che il più delle volte il problema proviene dalla famiglia stessa. Sono i famigliari a non avere quella apertura mentale che permette alla persona disabile di non sentirsi tale.

Che consiglio si sente di dare alle persone che non accettano la propria disabilità?
Penso che non si debba accettarla, ma usarla per fare qualcosa per sé e gli altri. Non stare a piangersi addosso o aspettare che arrivi quello che si vuole perché è dovuto. Assolutamente, no! Credo che sia meglio cercare  di essere sempre se stessi, senza avere timore di quelli che sembrano limiti. Ognuno  è un’entità diversa, con dei pregi da valorizzare. E con questi, insistere per realizzarsi, anche se si  va contro famiglia o altra istituzione. Io, d’altra parte, se avessi dato ascolto a chi mi stava attorno, non mi sarei diplomato, non mi sarei laureato, non avrei scritto libri, non avrei lavorato, non mi sarei sposato, non avrei avuto figli e poi non mi sarei separato,  ecc.  

Nella sua biografia si nota un interesse per le Filosofie orientali. Che rapporto ha con quel tipo di discipline?
E’ argomento di vitale importanza per me. E infatti sono sempre stato attratto da yoga, meditazione, Tantra, Reiki (di cui fra non molto prenderò il livello di Master), ecc.. Frequentando Padre Antony (un frate indiano - che emanava una energia straordinaria - che teneva incontri di meditazione a Bombay ed Assisi) e soprattutto col lama tibetano Ngan Tzon Tompa ho sviluppato una serie di meditazione adatte ad ogni tipo di disabilità. Penso che “Non dovrebbero essere le persone ad adattarsi alle tecniche di meditazione, bensì le tecniche ad adattarsi all’individuo”. Questo perché ogni individuo è unico e risponde in modo diverso nella pratica. Inoltre, il mio interesse per le filosofie orientale, insieme alle mie esperienze si correlano alla mia attività culturale ed artistico-letteraria.

Occidente



martedì 8 settembre 2015

Tavola Calda: IL NOME SEGRETO. Luciano Pellegrini. Un viaggio verso l'armonia

<< Il tuo sistema nervoso è uno strumento particolarmente ricettivo delle vibrazioni sottili della vita (…): Tutte le tue sensazioni
si amplificano a dismisura: guardi un bel panorama o un romantico tramonto? Tu voli! (…)>>

Con queste parole il guru Francis descrive la situazione di Luciano, protagonista di una storia emblematica e portatore di una testimonianza radicale.

Ci sono vite che si potrebbero definire (correndo il rischio di risultare superficiali) Testimonianze inconsapevoli, perché ci sono persone che con la loro stessa vitalità, la loro energia sfavillante lasciano una traccia incisiva e notevole, che, come un solco, denota il loro straordinario e forse, inconsapevole, carisma. Un carisma dato dalla scoperta del proprio centro, frutto di un percorso fatto di improvvisi abbandoni di certezze  ma anche di impensabili stati di gioia raggiunti una volta in cui si è arrivati a toccare un briciolo della propria unicità.

Il Nome Segreto è un libro che parla proprio di questo, della scoperta di sé attraverso una chiave di lettura ben precisa, gli occhi e le percezioni di un giovane con handicap travolto dalla potenza dell’amore e della poesia.

Edito nel 1999 presso le edizioni Guerra, è il primo romanzo di Luciano Pellegrini, poeta  e studioso di filosofie orientali, fondatore dell’associazione culturale L’EssereArmonia, il cui scopo è quello di abbattere le barriere architettoniche mentali che ancora attanagliano la sfera della disabilità dal punto di vista culturale e antropologico, un settore in cui gli stereotipi sono difficili da estirpare.

Il Nome Segreto è un vero e proprio  manuale di self help sotto forma di romanzo, in cui si intersecano diverse parole chiave. Parole come Meditazione, Amore, Tao, Guru, Coppia.

Il giovane poeta si inoltra nella ricerca del proprio centro, aiutato da Marina, una ragazza con un passato turbolento, sintonizzata però sulle sue stesse frequenze.
Marina invita Luciano a compiere un lungo viaggio che raggiunge e supera i limiti del quotidiano fatto di noia, ripetizione, aridità, attraverso un amore totale, eterno in potenza, in cui due anime si intersecano e si completano, oltre la realtà, oltre i corpi,  in attesa di una dolce armonia.


Un libro in grado di gettare “sottili ma forti semi in chi lo legge” ( come recita la quarta di copertina), che rende il lettore disponibile a dilatare i propri orizzonti, trasportandolo in una nuova dimensione oltre il proprio punto di vista.

Occidente

venerdì 29 maggio 2015

Cinema VERO: Mad Max - the Fury Road





Questa volta, contrariamente al costume tipico di questa rubrica, non parleremo di vecchio cinema che fa amaramente rimpiangere i bei tempi andati; bensì, parleremo di nuovo cinema che FA amaramente rimpiangere i bei tempi andati (almeno secondo me).

Raramente ho visto un effetto simile per questo film: UNANIMEMENTE acclamato dalla critica, con isolatissimi casi di recensione critiche (ovviamente scartando i cazzari che ne hanno sparlato per partito preso e per sperare di incrementare le visualizzazioni del proprio blog) il film ha in effetti altre-sì riscontrato un pressoché unanime riscontro dal pubblico.

Sono convinto che si tratti di una pellicola eccellente; il tempo ci dirà se può andare oltre. Mi permetto però di dire che diffido dell'unanimismo, sempre. Così sinceramente dopo un po' mi stonavano le lodi sperticate ricevute dal film, anche da firme eccellenti del settore.
Non sto a riprendere tutto, già letto mille volte; mi limito a porre un paio di puntini sulle i, giusto per la precisazione.


* Max senza Max?
Tom Hardy si è evidentemente applicato per interpretare il primo personaggio celebre di Mel Gibson, ma oggettivamente oltre un certo po' non può andare. Si consideri che è un
personaggio taciturno e scontroso, e non è una passeggiata riprenderlo con 4 battute. Dopo 30 anni. Da rivedere.

* Troppa azione?
Il pomo della discordia. Oltre metà film è costituito da inseguimenti, avevate mai notato che in realtà in quelli vecchi NON è così? "The Road Warrior" (il secondo, per il loggione) si chiude con un memorabile inseguimento (con la prima blindo-cisterna, tanto per dire) ma sì e no un 30% del film è basato su scene d'azione. Quindi, anche con soluzioni visive eccellenti, il ritmo è davvero tanto tanto alto, COME nella prassi degli anni 2000. Purtroppo. La qualità dell'azione resta eccellente, ma l'aspetto quantitativo segna un altro punto di differenza inevitabile dai vecchi tempi. 

* Troppe donne?
Questa è una vaccata, ma l'ho letta. In tutti i film della serie i ruoli femminili sono importanti, e le donne hanno una grande dignità (e più).

* NON (ripeto NON) guardate questo film se
Siete sensibili. La scena fulcro del film è di una crudeltà assoluta, come solo Miller sa fare. Questa è forse un'osservazione paternalistica, ma vale la pena farla.

* Se non vi siete visti la trilogia originale?
Il mio consiglio è di non guardare il film. Davvero. Vi perdete il senso della storia. Se poi i film originali non vi piacciono, motivo in più (condizione sufficiente ma non necessaria)
perché questo non vi piaccia, al 90% dei casi. 

* E Interceptor? (il primo della trilogia originale, ndr)
E' stato paragonato a questo in chiave diminutiva del medesimo.
Appartengo al numero di quelli che ritengono Interceptor un film assolutamente ECCEZIONALE. Che pure ebbe un clamoroso successo, all'epoca. Eppure raffrontarlo a questo film non ha senso, in mezzo ci sono gli altri due che hanno comunque fatto storia: un'altra storia, però, in molti sensi. Ma qui si riprende il secondo (non a caso *mini-SPOILER* è anche tatuato sulla schiena di Max, a inizio film, dai figli di guerra).

* Immortan Joe
Personaggio eccelso, ritroviamo l'attore che interpretò Toe Cutter in Interceptor ... ma la chicca è che si tratta di personaggi caratterizzati in modo ben diverso. Seppure, e qui è il bello, nella fantastica continuità della follia illuminata dei cattivi di questa saga. Eccellente. Per approfondimenti: posso parlare del solo personaggio di Toe Cutter per un paio di settimane. Molto di più della vecchia saga. Contattatemi ma prendete ferie prima. Per conferma: vedasi lo pseudonimo che uso da anni in questo blog.

* Le vere pecche
1. Con questo budget e 30 anni dopo non è possibile rifare dei meravigliosi B-Movie anni '80 quali erano Interceptor e Road Warrior. E' un'osservazione imprescindibile.
2. Il finale. Sempre Interceptor e The Road Warrior sono caratterizzati da due finali di quelli che ricordi per decenni. Questo no: ha un finale eccellente, ma non oltre.

* Giudizio complessivo
Eccellente, davvero; rivisto, merita di più. Per sapere se sarà nella mia top ten tra qualche anno, serve aspettare qualche anno. Ne riparleremo.
Per quasi tutti quelli con cui ho parlato, risolleva le sorti del cinema d'azione contemporaneo: credo di sì, però devo aggiungere che il cinema d'azione contemporaneo quasi non lo guardo ...

* L'unico rimpianto
Non averlo (per ora) visto in originale. Pazienterò, il minimo indispensabile però.

Si parla già di un seguito, che mi riporterà al panico totale di prima di aver visto questo. Lo affronterò alla maniera suggerita in The Fury Road: sperare è sbagliato.

Buona vita a tutti!

Toe Cutter

mercoledì 20 maggio 2015

Tavola calda: Viaggio tra la musica dei Mambassa, Slow food e 1992. Intervista a Stefano Sardo


Stefano Sardo, scrittore, musicista e sceneggiatore originario di Bra ha un curriculum decisamente denso.
Ha realizzato, insieme a Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri, la sceneggiatura della serie tv noir/storico-politica 1992, appena trasmessa dalle reti Sky.
 La stessa equipe ha firmato poi la sceneggiatura de Il Ragazzo Invisibile, primo film italiano che affronta la tematica dei supereroi per la regia di Gabriele Salvatores.
Ha realizzato, inoltre, un documentario su Slow Food, l’associazione di Carlo Petrini che ha lo scopo di ridare dignità gastronomica al cibo, salvandolo dalla logica del profitto. Che altro dire? A lui la parola.

Un profilo eclettico: scrittore, musicista, sceneggiatore. In quale dimensione ti ritrovi di più?
Se proprio devo scegliere dico sceneggiatore. Ma per indole ogni volta che mi sento troppo definito mi viene voglia di fare qualcos’altro. Ora per esempio mi piacerebbe curare la regia di un film, chi lo sa se succederà mai.

Sei autore e cantante di uno dei gruppi storici della scena rock underground, i Mambassa. Quali emozioni provi nel collaborare a questo progetto ormai ventennale?
Affetto, un po’ di nostalgia per quando eravamo venticinquenni, e tante difficoltà, soprattutto logistiche. Io vivo a Roma e gli altri in Piemonte sicché materialmente ci vediamo pochissimo. Le cose si fanno a distanza e io sono una frana con la tecnologia, per di più, il che complica le cose. Ma ci tengo molto a fare uscire entro quest’anno il nostro sesto disco di inediti, perché nel 2015 i Mambassa compiono vent’anni e sarebbe un modo degno di onorare questo risultato. C’è molta ostinazione, in questo obiettivo. Un nostro vecchio amico la chiamerebbe “tigna”.

Quali sono le tue influenze artistico/letterarie?
Non saprei. Non sono un intellettuale, non ho quella testa lì. Non riesco a essere acceso dall’arte concettuale, ho bisogno di farmi emozionare. Per questo mi piace la narrazione, i personaggi ben costruiti, la sapienza di celare il talento attraverso un’onestà di sguardo e di racconto e di non esibirlo mai. Odio il virtuosismo. Soprattutto nella musica. Per me fusion è una parolaccia.

Hai esordito come musicista. Quando hai capito che la musica sarebbe entrata a far parte della tua vita?
Quando ricevetti la assurda telefonata, nel 1996, in cui un amico mi comunicava che Claudio Cecchetto voleva metterci sotto contratto. Mi ci dedicavo seriamente solo da un anno, alla musica, con i Mambassa, anche se suonavo in complessi fin da quando avevo 15 anni. Era, credo, il mio modo per togliermi dai problemi che la mia famiglia attraversava in quel momento e dal senso di asfissia che mi derivava dall’aver vissuto sempre nella stessa piccola città per tutta la vita. Suonavo per pensarmi in maniera differente, ma non credevo di poterne fare un mestiere davvero. Poi arrivò quella telefonata inattesa e spiazzante – per me Cecchetto allora voleva dire tutta quella musica commerciale che snobbavo – e per qualche mese, forse un anno, mi illusi anche che potessimo avere successo, ma quella ubriacatura finì presto e già dopo due anni avevo capito che avrei dovuto puntare su qualcos’altro. Già col secondo disco passammo alla Mescal ma arrivammo nell’ambito della musica indipendente visti con la diffidenza di chi era stato scoperto da un discografico mainstream: peraltro verso Cecchetto non posso che avere simpatia e riconoscenza. Si comportò da ottimo discografico e da gentiluomo.

Cosa ti ha spinto ad approdare all’attività di sceneggiatore?
Avevo sempre sognato di farlo, ma non credevo che ci sarei mai riuscito professionalmente, vivendo in provincia. Avendo fallito nel tentativo di fare della musica un mestiere con cui campare, poi, ero molto scoraggiato, e la prima cosa che feci quando capii che dovevo dare una svolta alla mia vita fu andare a lavorare a Slow Food, che a Bra è una realtà molto solida: inoltre a Slow Food ai tempi lavoravano sia mio padre sia i miei due fratelli maggiori. Per me – che avevo sempre coltivato ambizioni artistiche - era un po’ una sconfitta, ma mi ci applicai molto. Lavorai per due anni, intensamente, in ufficio dalle 9 alle 18 tutti i giorni. Ma intanto continuavo a pensare al cinema e a tener vivi i Mambassa. Fu un corso di tre weekend alla Scuola Holden di Torino e riaccendere in me la voglia di provare con la sceneggiatura. Subito dopo tentai l’iscrizione a un corso specializzato a Roma (la Scuolafiction di Mediaset), e feci tutte le prove di selezione. Quando mi comunicarono di avermi selezionato lo presi come un punto di svolta: mollai il lavoro, feci armi e bagagli e mi trasferii a Roma, con la piccola liquidazione di Slow Food in tasca, un romanzo pubblicato e Mi manca chiunque dei Mambassa in uscita con Mescal. Ci provai. E alla fine andò bene.

Nel documentario Slow Food Story tracci un ritratto di Slow Food ma anche della terra da cui provieni. Come è il legame con la tua terra d’origine?
Il legame è radicato e molto forte: Slow Food è sempre stata per me una sorta di versione estesa della mia famiglia. Per questo ho voluto fare quel documentario. Per mostrare il mio affetto e la mia riconoscenza e il mio senso di appartenenza verso quel mondo, che mi ha formato indelebilmente. Ma forse inconsciamente  per voltare davvero pagina lasciandomelo affettuosamente alle spalle.

Hanno appena trasmesso la serie tv 1992 che ti vede impegnato come sceneggiatore insieme a Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri. Qual è l’idea portante della serie?
Raccontare la storia d’Italia come in un romanzo di James Ellroy, e filtrandolo attraverso lo sguardo di chi è cresciuto a pane e serie tv. 1992 parla degli Uomini Nuovi che, quando il terremoto di Mani Pulite fece crollare un Sistema – la Prima Repubblica – che sembrava eterno, sfruttarono la grande occasione per spiccare il salto verso il potere. Sapendo come poi è andata a finire, non poteva essere che un noir. E’ stato il lavoro più impegnativo e totalizzante della mia vita.

Prossimi progetti in cantiere?
I sequel innanzitutto: sto lavorando a 1993 e a Il Ragazzo Invisibile 2, scritti sempre con i miei impagabili soci Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri. E a settembre, se ci riesco, il nuovo disco dei Mambassa: Non avere paura, si chiamerà. L’avevo già detto? E’ un bel titolo, no?


Occidente

mercoledì 13 maggio 2015

Tavola Calda: Fabiano Lioi, una vita sempre oltre


Ripropongo un articolo che ho scritto tre anni fa per la rivista KultUnderground.

È un ritratto del geniale artista Fabiano Lioi, musicista, attore e persona di spessore con parecchie cose da raccontare.

Il musicista jazz Michel Petrucciani diceva: “Se non posso essere normale voglio essere un’eccezione, un artista eccezionale”. E Lucio Dalla, in una sua canzone, diceva a sua volta: “L’impresa eccezionale è essere normale”. Allora è meglio essere normali o eccezionali? Una domanda retorica prevede una risposta scontata: tutti siamo un’eccezione. È vero, siamo tutti inevitabilmente ed essenzialmente diversi, inadatti a qualsiasi tipo di omologazione, anche coatta. 

L’omologazione è una limitazione della libertà, a detta di molti. Una limitazione della libertà di dire, di pensare e di creare. Tutti questi lati della libertà sono la cosa che sta più a cuore al musicista e attore italo-cileno Fabiano Lioi che rivendica la sua eccezionalità in ogni occasione, sia quando si tratta di suonare con disinvoltura chitarra batteria e pianoforte, sia quando si cimenta come attore in singolari spettacoli. Al pari di Michel Petrucciani, Fabiano soffre di una patologia chiamata osteogenesi imperfetta, che comporta un’ estrema fragilità ossea, oltre che problemi di deambulazione e di sviluppo.  Ma ciò che per molti può sembrare un limite, può diventare al tempo stesso una risorsa per dimostrare ad una società in cerca di figure forti, chi forte lo è per davvero, tutti i giorni, senza bisogno di indossare maschere.

Nato in Cile nel 1977, a diciannove anni lascia la casa paterna e a venti si trasferisce stabilmente a Roma  conducendo, per qualche tempo, una vita sregolata (dormendo alcune notti in una stazione). Sempre a Roma frequenta la Scuola Sipario Musica in cui impara a suonare. Ma la svolta è presto in arrivo: incontra sulla sua strada il professor Paolo Falessi , fondatore del gruppo Ladri di Carrozzelle, gruppo composto da musicisti disabili, attivo dal 1990. Nel gruppo, Fabiano, coltiva il suo carattere istrionico e le sue doti di musicista diventando presto una colonna portante della band. 

Affronta la vita con grinta, autostima e ironia, definendosi un ribelle, anarchico nel cuore. Purtroppo un brutto incidente motociclistico dovrà porre fine alla sua attività di musicista, lasciandolo inattivo per quasi un anno e lo costringerà ad abbandonare i Ladri. Ma è proprio lo spirito guerriero, il coraggio e l’incredibile voglia di vivere a dargli la forza necessaria per reagire ai postumi dell’incidente e a schiaffeggiare, anche in questo caso, una sorte che sembra volersi prendere gioco di lui.

È ora all’attivo con cortometraggi, sceneggiature e si diletta a suonare la chitarra in un gruppo dal nome evocativo ‘Mantic’, come il màntis, il profeta della cultura greca. Uno dei tanti progetti in cui è impegnato prevede la realizzazione di un documentario che intende mostrare quanto la disabilità si possa rivelare una risorsa e non solo un limite, infrangendo quindi le barriere architettoniche, non solo reali, ma anche mentali e culturali che affliggono la società italiana.

Durante la trasmissione Invincibili, trasmessa su Italia1, Fabiano Lioi, dice “Dò la parte migliore di me quando sono su un palco. Quando sto creando mi sento vivo”. Possiamo dire che questa è la conferma che l’arte, musica compresa, sia la linfa vitale per ogni tipo di energia creativa e di profonda sensibilità, scandagliando le porte dell’anima e facendo emergere, appunto, la parte migliore >>.

Occidente                       


Fonte: http://www.kultunderground.org/art/17630  

martedì 14 aprile 2015

Tavola Calda: PAOLO TOFANI. Dentro come fuori. Il suono sopra ogni cosa




La ricerca di profondità pretende una costante modifica del proprio punto di vista, che lentamente si amplia mano a mano che si scandaglia la propria interiorità.

Ad un certo punto bisogna capire dove si sta andando.

Durante la presentazione del disco Live 2012, una raccolta di esibizioni dal vivo, mi è venuto istintivo chiedere a Paolo Tofani se avesse trovato il tanto ricercato equilibrio interiore.

Il contesto mi sembrava indicato, poche persone, presentazione conclusa, autografi già fatti.

Con una calma inaspettata mi ha risposto, sorridendo: <<E’ una ricerca continua. Frequento questa dimensione da trent’anni e proseguo nella ricerca giorno per giorno>>.

Paolo Tofani trenta anni fa ha deciso di interrogarsi. È già un chitarrista rock con una modesta fama, proveniente da un periodo di formazione in Inghilterra. Esordisce poco più che adolescente nei Califfi, dopo aver imparato a suonare da autodidatta. La chitarra, del resto, è il suo primo amore.

Quando sembra che il successo stia arrivando lui svolta immediatamente e parte con la moglie.
In Inghilterra si esibisce in diversi locali, completamente da solo, insieme alla chitarra, oggetto/soggetto a cui è simbioticamente legato che lo accompagna costeggiando ogni sua fase di ricerca interiore.

È un periodo in cui sperimenta sonorità di vario genere e livello e trascorre parte del suo tempo libero a incidere provini nel salotto di casa del suocero su un registratore stereo Revox. La sua seconda folgorazione, la prima dopo la chitarra, ha il nome di Sintetizzatore.
Nel 1973 in Italia si sta formando un gruppo sperimentale (d’avanguardia si diceva un tempo) che vuole incidere nell’atmosfera musicale con un suono che sintetizzi i migliori motivi del folklore tradizionale con l’avanguardia ricercata, ambita, desiderata.
Il gruppo si chiama Area, un complesso destinato a solcare i palchi del panorama rock italiano ed europeo dando vita a gioielli musicali che diventeranno presto di culto.
Sono un gruppo rock con un colore differente, autonomo, formato da musicisti con l’indole dei ricercatori del suono, un suono nuovo, energetico, vitale e incisivo.

Il cantante, Demetrio Stratos, farà della voce un perno su cui strutturerà tutta la sua caratura artistica, trasformandola in un vero e proprio strumento musicale polifonico e in un corposo tema di approfondimento accademico.

Calca diversi palchi, trasformando i concerti in dimostrazioni d’avanguardia. 

Un virtuoso della chitarra, in grado di mescolare diverse influenze.

Tofani modifica e assembla suoni da varie distanze. Un campionatore umano di creatività la cui cifra stilistica si esemplifica nella precisione tecnica che lo porta a progettare, al pari di un artigiano, la Trikanta Veena nuovo strumento a corda a metà tra un sitar e una chitarra che forma melodie degne della migliore tradizione del raga rock, il rock indiano, coincidente con il cambio di equilibrio interiore che avviene dentro l’artista che da diversi anni ha abbracciato la religione Hare Krishna. 

Vuole trovare se stesso e decide di approfondirsi seguendo la strada orientale, condividendo, per altro, la cella dell’ashram con Krishna Caitanya Dasa ovvero Claudio Rocchi, compianto cantautore, poeta dell’anima, ricercatore spirituale e monaco induista per 15 anni.

Tofani prosegue la sua ricerca segnando i passi con i suoni della sua interiorità.

La ricerca è fatta di svolte, di qualche passo avanti e qualcun altro indietro, ma la strada è sempre quella, inevitabile quando si inizia, della consapevolezza.


Occidente

venerdì 3 aprile 2015

Tavola Calda: ANDREA SCANZI/GIULIO CASALE, DALLA PARTE DI DE ANDRE’ SU “LE CATTIVE STRADE”



Fantasia. Non solo invenzione artistica ma anche indagine dell’anima. 
Un’indagine che si pone il fine, nobile e difficile, di andare oltre il limite, spesso invalicabile, della retorica.
La retorica del fatto che vada tutto bene, del fatto che sono tutti italiani, un popolo di santi, poeti, navigatori e via di retorica andante.

Su Fabrizio De Andrè è stato detto di tutto e di più: “Il più grande poeta del novecento”, “uno chansonnier”, il regista Wim Wenders addirittura lo ha definito un “santo”.

Dopo le definizioni sorge spontaneo anche chiedersi cosa avrebbe pensato Fabrizio De Andrè di queste stesse definizioni, perché ormai De Andrè è di tutti e ognuno gli appiccica una parte di sé alleggerendo se stesso e i propri pensieri ma appesantendo una figura che, nonostante le definizioni, ha lasciato un marchio indelebile nel modo di fare musica, di pensarla, non solo, ma anche nel gettare lo sguardo oltre il proprio ombelico.

Andrea Scanzi, firma illustre del giornalismo italiano, ha colto l’essenza dell’arte di De Andrè ed insieme a Giulio Casale, voce degli Estra, chitarrista e scrittore, ha dato vita ad uno spettacolo teatrale che ripercorre l’opera musicale del cantautore genovese intersecandola con la sua emotività.  Il titolo è emblematico: Le cattive strade, proprio come la celebre canzone e le strade preferite dall'
artista di Genova.

Cattive strade non per forza dal punto di vista morale, ma cattive in quanto fuori dall’ordinario, dal gruppo, etichettate diverse e disgustose secondo il pregiudizio comune.

Ma per questo più vere, vitali, oneste e, soprattutto, in grado di smantellare tutte quelle gabbie mentali e di aprire lo sguardo verso la dignità umana dell’Altro (con la A maiuscola), messaggio di cui De Andrè si farà portavoce già a partire dalla Buona Novella.

Il racconto della biografia deandreiana è inframmezzato da interpretazioni acustiche di canzoni epocali come Inverno, La canzone del maggio o la bruciante Preghiera in gennaio (dedicata al compianto Luigi Tenco).

Con questo spettacolo Scanzi ha raccolto il testimone di De Andrè facendosi megafono di un messaggio che parte dal cuore ed istintivamente sta dalla parte degli esclusi, degli emarginati, di chi per nascita od essenza è destinato a stare fuori da qualsiasi tipo gruppo, branco, istituzione ma di questo  ne fa una medaglia, un vanto, un motivo quasi di  orgoglio.


Occidente

venerdì 27 febbraio 2015

Tavola Calda: SUONI ED EMOZIONI. INTERVISTA A CHIARA VIDONIS



Originalità. È questa la prima parola che mi viene in mente pensando ai suoi lavori. A breve uscirà il suo album d’esordio.
Una voce graffiante e ruvida aggraziata da toni dolcissimi trasferisce i battiti del cuore in composizioni vibranti, bozzetti acustici ed elettrici che parlano dei movimenti di un’anima. Le piace Battisti. È di Trieste ma da qualche anno vive a Roma. È Chiara Vidonis.

Partiamo dal premio Pigro Cantautori in Vigna 2014, dedicato a Ivan Graziani. Cosa ha significato per te? Cosa ti ha spinto a fare la cover di Pigro?
Non partecipo a tutti i concorsi che vedo in giro, quelli a cui ho partecipato li ho sempre scelti con cura tra tanti, sicuramente troppi. Ho sempre amato Ivan Graziani, le sue canzoni, il suo modo di fare rock da cantautore, la sua personalità, partecipare già poteva essere una bella soddisfazione, vincerlo poi ha significato molto proprio per i motivi sopra detti. Dovevamo scegliere una cover da presentare accanto al’inedito e Pigro mi sembrava perfetta per una performance chitarra e voce. E’ oltretutto una delle canzoni di Graziani a cui sono piu’ legata da quando sono piccola, la faccio sempre durante i miei live.

Hai un modo di cantare molto viscerale, vissuto ed emotivo. Quali sono le tue influenze musicali e artistiche?
Mi sono avvicinata alla musica con quello che trovavo in casa, i dischi di mio fratello, in particolare De André e Guccini le mie due prime grandi passioni. Poi ho iniziato presto a cercare un mio modo di esprimermi, di scrivere musica mia, era quello che mi piaceva fare mi mancava musica composta da donne, non erano nei miei ascolti fino a che non ho scoperto Carmen Consoli ai suoi esordi rock e ne sono rimasta folgorata.
Diciamo che ammiro molto le personalita’ femminili nel rock, ma quelle poco scontate, quelle che anche solo a stare zitte su un palco hanno gia’ detto tutto. Janis Joplin, Beth Hart, Beth Gibbons, PJ Harvey per dirne alcune ma anche la splendida Cristina Dona’ o una personalita’ folle come quella di Nada.


Quando è avvenuto il tuo incontro/scontro con la musica?
Non ricordo bene, credo di essere stata sempre attratta dalla musica, Intorno ai 9 anni ho inziato a suonare la  chitarra, ho sempre scritto molto, quaderni di pensieri, cose, e quindi se non ricordo male intorno ai 12 anni ho scritto la mia prima canzone in inglese, è partito da là. Subito dopo pero’ ho iniziato a scrivere in italiano. E’ la mia lingua,non riuscirei ad esprimermi come voglio in inglese, anche se ogni tanto qualcosa in inglese la scrivo, mi preparo un piano di fuga.


Su cosa è incentrato il tuo album d’esordio?
Non so dirti, come spesso accade il primo disco e’ un best of di canzoni scritte in un arco temporale molto dilatato, sono 11 brani che sono un po’ il riassunto di quello che piu’ mi ha rappresentato in questi ultimi 5/6 anni, gli anni in cui ho definito, dal mio punto di vista, il mio stile. Essendo sempre a meta’ tra il mondo dei cantautori e il rock ho cercato di dare questo sapore al mio disco. Essendo poi un’autoproduzione ho potuto liberamente muovermi come volevo. Assieme a me in questa avventura ci sono persone davvero incredibili per la loro professionalità,  passione, dedizione e umanità.  Sono Stefano Bechini, Daniele Fiaschi, Andrea Palmeri e Simone de Filippis. Loro hanno suonato tutto nel disco e hanno un ruolo fondamentale nella produzione.

Da cosa parti per comporre una canzone? Un’emozione, una lettura, un suono?
Parto da quello che c’è, A volte mi viene in mente una frase, una linea melodica, le fisso e poi sviluppo tutto. Altre volte scrivo un testo e poi metto in musica, non ho delle regole precise, ma di solito il metodo che funziona meglio per me e’ l’improvvisazione.

Hai realizzato diverse cover tra cui Insieme a te sto bene di Lucio Battisti e Io e te di Edda. Che rapporto hai con queste canzoni?
Coverizzo solo chi amo, quindi il rapporto e’ di rispetto e amore. Amo molto il brano di Battisti perche’ potrebbe tranquillamente essere stato scritto ieri o tra 10 anni, sara’ sempre un brano attuale, diretto, semplice ed intenso. Edda invece è una scoperta più recente per me. Lo ascolto da quando ha avuto il suo debutto solista, quindi circa 5 anni fa, l’ho amato subito, non lo capivo bene all’inizio ma e’ un tipo di personalità che quando ti prende non ti molla, pretende che tu entri nella sua testa, non lo conosco personalmente ma questo e’ l’effetto che mi fa ascoltarlo. Io e te e’ una delle mie preferite.

Sei originaria di Trieste, ma vivi a Roma. In quale delle due città c’è più terreno fertile per le novità artistiche?
Beh è difficile dirlo, entrambe presentano dei vantaggi e degli svantaggi per un musicista, a Trieste suonano tutti ma non ci sono molti posti per farlo, è normale, non è una città grande e quello che c’è è comunque molto bello, appassionato.  A Roma ci sarebbero molte piu’ possibilita’ ma essendo comunque una città enorme, dispersiva, non è sempre facile emergere, ma non mi piace lamentarmi, poi uno deve sempre fare i conti con se stesso e con la sua capacita’ ad imporsi e darsi da fare.
         

Occidente

mercoledì 18 febbraio 2015

Tavola Calda: Suoni e ispirazioni per sensibilità metropolitane. INTERVISTA AI CRONACA E PREGHIERA











Membri della band:

Giuliano Billi: voce, chitarra, synth
Francesco Salvadori: chitarra, synth, cori
Ljubo Ungherelli: voce, performance
Vanessa Billi: voce, cori, synth
Antonio Polidoro: batteria, octopad



Ci troviamo di fronte ad un panorama dirompente ed esplosivo.

Un’unione incandescente fatta di chitarre distorte, drum muchine e sintetizzatori che si fondono in un miscuglio dal sapore piccante del post punk, dell’eco delle colonne sonore dei film di David Lynch, passando per i Daft Punk e il riverbero dei giornali scandalistici.
I Cronaca e Preghiera nutrono il loro progetto musicale con successo attraverso la diffusione online e, dal 2014, lo arricchiscono con un pacchetto di concerti dal vivo supportati da performance coreografiche.
Il loro omonimo album d’esordio è il frutto più autentico dell’autoproduzione, mezzo che consente una maggiore libertà economica ed espressiva.
Ai tre componenti della band si è aggiunto anche Ljubo Ungherelli, scrittore che ha all’attivo decine di romanzi, fan del gruppo, collaboratore ai testi e alle voci e artista totale.

Partiamo dall’inizio, dal titolo: Cronaca e preghiera. Come mai avete scelto questo nome? Che cosa è “Cronaca” e cosa è “Preghiera”?

Prima di tutto perché secondo noi suonava bene! Inoltre, mentre venivano fuori i primi brani, ci siamo resi conto che i testi in particolare avevano un preciso denominatore comune. Attingevano infatti, oltre al nostro personale vissuto, a fatti di cronaca estrapolati da giornali locali, così come da interviste, fumetti e altro ancora. Da qui il termine "Cronaca".
La "Preghiera" rappresenta invece la sublimazione della realtà, il nostro lato di spiritualità atea che dalla Cronaca trae spunto per raccontare la nostra visione del mondo.

Musicalmente sembra una sperimentazione che viaggia tra la new wave e il post punk degli ottanta unita alla migliore tradizione dello spoken word. Cosa vi ha spinto a seguire queste sonorità?

Il post punk è uno dei generi a cui siamo più affezionati ed è molto adatto alle tematiche che trattiamo nei testi; volevamo dare un suono molto urbano e metropolitano a questo disco. Ci sono però molte altre ispirazioni, prevalentemente di colonne sonore, specie quelle di David Lynch (in particolare per “La vita al tempo della crisi” e “Mi sposo un calciatore”) e David Cronenberg (per “Costa meno andare a troie”). In più, un uso dell’elettronica dettato tanto dal post punk quanto dai Daft Punk, ad esempio (“Condominio”).
In generale, tendiamo ad arricchire le canzoni con determinate peculiarità che a nostro parere servono a dare forza al messaggio, senza curarci più di tanto di eventuali rimandi o riferimenti.

I testi sembrano flussi di pensiero, sono molto espliciti, veri e surreali al tempo stesso. Da dove avete tratto l’ispirazione?

Quasi tutti i testi hanno un’origine autobiografica, filtrata dagli spunti di cronaca di cui si diceva poc’anzi. Usiamo spesso un linguaggio esplicito, non solo nelle parole ma anche nell’immediatezza, per svincolarci dall’abuso del testo ermetico (e incomprensibile), caratteristica del rock italiano anni ’80 e ’90. L’ispirazione viene dall’alienazione della vita nella metropoli e nella periferia suburbana (“Condominio”, “Una splendida giornata di sole”, “L’abominevole uomo cupo”) e dalla solitudine e superficialità con cui a volte si vive la coppia (“Costa meno andare a troie”, “Mi sposo un calciatore”, “Le cose sexy”). Un caso a parte è “Sogni infranti a Paderno Dugnano”, titolo letto su un giornale locale facendo colazione al bar. Strano accostamento tra due parole poetiche ed evocative e il brusco atterraggio sul nome di un comune lombardo. Da lì abbiamo incollato insieme vari stralci di articoli e ne è venuto fuori un ritratto disincantato e compassionevole della vita di provincia.

Quanta autobiografia è presente nei testi?

Moltissima, almeno l’80% dei testi parte da storie vissute in prima persona. Ci interessava in questo disco dare sfogo senza censure al lato oscuro, ai nostri sentimenti più negativi. “Condominio” racconta cose viste e vissute da Francesco quando abitava in un monolocale nel centro di Milano: le case di ringhiera milanesi rappresentano un microcosmo estremamente variopinto.  “Costa meno andare a troie” e “Ucciderti a rate” sono ritratti abbastanza fedeli di momenti di totale sfiducia nelle relazioni. C’è comunque una forte ironia che colora tutto questo nero, un modo di raccontare che paga pegno agli Skiantos, che ad onta dei giudizi più superficiali erano molto più di un semplice gruppo demenziale.

Come mai avete scelto di realizzare questo album attraverso l’autoproduzione?

Sentivamo che il disco doveva uscire così com’era nato: velocemente, senza ripensamenti. Quasi tutto il lavoro rispecchia i provini fatti in meno di una giornata. Non volevamo in quel momento produttori che ci dicessero cosa fare o ci costringessero a dilatare i tempi di pubblicazione. Così, dato che il mondo di oggi lo permette, abbiamo attinto ai nostri risparmi e registrato il disco, che stiamo promuovendo grazie al prezioso supporto di management e ufficio stampa di Astarte Agency. L’autoproduzione per un musicista è anche molto istruttiva, ti aiuta a capire fino in fondo i processi che vanno dalla creazione alla fruizione.

Ljubo, con che spirito ti sei approcciato a questo progetto? Quale è la tua idea di musica? Con quale forma d’arte preferisci comunicare?

A metà anni Duemila ero un fan della precedente incarnazione del gruppo, e quando mi è stato proposto di collaborare alla stesura dei testi di nuove canzoni ho accettato con incosciente entusiasmo, dato che non mi ero mai cimentato in questo genere di composizione (nell’altra mia esperienza musicale, Progetto Idioma, i testi erano stralci di miei romanzi declamati/urlati in modo assai poco ortodosso).
La mia idea di musica si può così riassumere: immediatezza, melodia, energia. E un’attenzione particolare allo spettacolo live nella sua accezione più ampia e non limitata a esecutori che suonano e cantano e fine. Tutti elementi che ritrovo in questa band.
Quest’anno cade il ventennale della mia carriera di scrittore ed è naturale che sia la prosa la forma espressiva con cui mi trovo più a mio agio. Mi sono comunque sempre rimesso in discussione e credo d’aver dato un significativo contributo anche in questa per me inedita veste di (co)autore di testi musicali.

Prossimi progetti in cantiere?

Suonare il nostro disco dal vivo il più possibile! Abbiamo due set, uno acustico per i club piccoli, più blues e intimo, e uno prettamente rock’n’roll per gli altri locali. Cerchiamo sempre di proporre un live che sia eccitante e coinvolgente a livello d’impatto scenico oltre che musicale. Siamo inoltre al lavoro su dei nuovi brani, mentre a breve vedrà la luce il videoclip del nostro secondo singolo “Ucciderti a rate”. Seguiteci ai concerti e sulle nostre piattaforme online e ne vedrete delle belle!


Occidente