Stefano Sardo,
scrittore, musicista e sceneggiatore originario di Bra ha un curriculum
decisamente denso.
Ha realizzato, insieme a Ludovica Rampoldi e Alessandro
Fabbri, la sceneggiatura della serie tv noir/storico-politica 1992, appena
trasmessa dalle reti Sky.
La stessa equipe ha
firmato poi la sceneggiatura de Il Ragazzo Invisibile, primo film italiano che
affronta la tematica dei supereroi per la regia di Gabriele Salvatores.
Ha realizzato, inoltre, un documentario su Slow Food,
l’associazione di Carlo Petrini che ha lo scopo di ridare dignità gastronomica
al cibo, salvandolo dalla logica del profitto. Che altro dire? A lui la parola.
Se proprio devo scegliere dico
sceneggiatore. Ma per indole ogni volta che mi sento troppo definito mi viene
voglia di fare qualcos’altro. Ora per esempio mi piacerebbe curare la regia di
un film, chi lo sa se succederà mai.
Sei autore e cantante di uno dei gruppi storici della scena rock
underground, i Mambassa. Quali
emozioni provi nel collaborare a questo progetto ormai ventennale?
Affetto, un po’ di nostalgia per
quando eravamo venticinquenni, e tante difficoltà, soprattutto logistiche. Io
vivo a Roma e gli altri in Piemonte sicché materialmente ci vediamo pochissimo.
Le cose si fanno a distanza e io sono una frana con la tecnologia, per di più,
il che complica le cose. Ma ci tengo molto a fare uscire entro quest’anno il
nostro sesto disco di inediti, perché nel 2015 i Mambassa compiono vent’anni e
sarebbe un modo degno di onorare questo risultato. C’è molta ostinazione, in
questo obiettivo. Un nostro vecchio amico la chiamerebbe “tigna”.
Quali sono le tue influenze artistico/letterarie?
Non saprei. Non sono un
intellettuale, non ho quella testa lì. Non riesco a essere acceso dall’arte
concettuale, ho bisogno di farmi emozionare. Per questo mi piace la narrazione,
i personaggi ben costruiti, la sapienza di celare il talento attraverso
un’onestà di sguardo e di racconto e di non esibirlo mai. Odio il virtuosismo.
Soprattutto nella musica. Per me fusion
è una parolaccia.
Hai esordito come musicista. Quando hai capito che la musica sarebbe
entrata a far parte della tua vita?
Quando ricevetti la assurda
telefonata, nel 1996, in cui un amico mi comunicava che Claudio Cecchetto
voleva metterci sotto contratto. Mi ci dedicavo seriamente solo da un anno,
alla musica, con i Mambassa, anche se suonavo in complessi fin da quando avevo
15 anni. Era, credo, il mio modo per togliermi dai problemi che la mia famiglia
attraversava in quel momento e dal senso di asfissia che mi derivava dall’aver
vissuto sempre nella stessa piccola città per tutta la vita. Suonavo per
pensarmi in maniera differente, ma non credevo di poterne fare un mestiere
davvero. Poi arrivò quella telefonata inattesa e spiazzante – per me Cecchetto
allora voleva dire tutta quella musica commerciale che snobbavo – e per qualche
mese, forse un anno, mi illusi anche che potessimo avere successo, ma quella
ubriacatura finì presto e già dopo due anni avevo capito che avrei dovuto
puntare su qualcos’altro. Già col secondo disco passammo alla Mescal ma
arrivammo nell’ambito della musica indipendente visti con la diffidenza di chi
era stato scoperto da un discografico mainstream: peraltro verso Cecchetto non
posso che avere simpatia e riconoscenza. Si comportò da ottimo discografico e
da gentiluomo.
Cosa ti ha spinto ad approdare all’attività di sceneggiatore?
Avevo sempre sognato di farlo, ma
non credevo che ci sarei mai riuscito professionalmente, vivendo in provincia.
Avendo fallito nel tentativo di fare della musica un mestiere con cui campare, poi,
ero molto scoraggiato, e la prima cosa che feci quando capii che dovevo dare
una svolta alla mia vita fu andare a lavorare a Slow Food, che a Bra è una
realtà molto solida: inoltre a Slow Food ai tempi lavoravano sia mio padre sia
i miei due fratelli maggiori. Per me – che avevo sempre coltivato ambizioni
artistiche - era un po’ una sconfitta, ma mi ci applicai molto. Lavorai per due
anni, intensamente, in ufficio dalle 9 alle 18 tutti i giorni. Ma intanto
continuavo a pensare al cinema e a tener vivi i Mambassa. Fu un corso di tre weekend
alla Scuola Holden di Torino e riaccendere in me la voglia di provare con la
sceneggiatura. Subito dopo tentai l’iscrizione a un corso specializzato a Roma
(la Scuolafiction di Mediaset), e feci tutte le prove di selezione. Quando mi
comunicarono di avermi selezionato lo presi come un punto di svolta: mollai il
lavoro, feci armi e bagagli e mi trasferii a Roma, con la piccola liquidazione
di Slow Food in tasca, un romanzo pubblicato e Mi manca chiunque dei Mambassa
in uscita con Mescal. Ci provai. E alla fine andò bene.
Nel documentario Slow Food Story
tracci un ritratto di Slow Food ma
anche della terra da cui provieni. Come è il legame con la tua terra d’origine?
Il legame è radicato e molto
forte: Slow Food è sempre stata per me una sorta di versione estesa della mia
famiglia. Per questo ho voluto fare quel documentario. Per mostrare il mio
affetto e la mia riconoscenza e il mio senso di appartenenza verso quel mondo,
che mi ha formato indelebilmente. Ma forse inconsciamente per voltare davvero pagina lasciandomelo
affettuosamente alle spalle.
Hanno appena trasmesso la serie tv 1992
che ti vede impegnato come sceneggiatore insieme a Ludovica Rampoldi e
Alessandro Fabbri. Qual è l’idea portante della serie?
Raccontare la storia d’Italia
come in un romanzo di James Ellroy, e filtrandolo attraverso lo sguardo di chi
è cresciuto a pane e serie tv. 1992
parla degli Uomini Nuovi che, quando il terremoto di Mani Pulite fece crollare
un Sistema – la Prima Repubblica – che sembrava eterno, sfruttarono la grande
occasione per spiccare il salto verso il potere. Sapendo come poi è andata a
finire, non poteva essere che un noir. E’ stato il lavoro più impegnativo e
totalizzante della mia vita.
Prossimi progetti in cantiere?
I sequel innanzitutto: sto
lavorando a 1993 e a Il Ragazzo Invisibile 2, scritti sempre
con i miei impagabili soci Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri. E a
settembre, se ci riesco, il nuovo disco dei Mambassa: Non avere paura, si chiamerà. L’avevo già detto? E’ un bel titolo,
no?
Occidente
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