mercoledì 20 maggio 2015

Tavola calda: Viaggio tra la musica dei Mambassa, Slow food e 1992. Intervista a Stefano Sardo


Stefano Sardo, scrittore, musicista e sceneggiatore originario di Bra ha un curriculum decisamente denso.
Ha realizzato, insieme a Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri, la sceneggiatura della serie tv noir/storico-politica 1992, appena trasmessa dalle reti Sky.
 La stessa equipe ha firmato poi la sceneggiatura de Il Ragazzo Invisibile, primo film italiano che affronta la tematica dei supereroi per la regia di Gabriele Salvatores.
Ha realizzato, inoltre, un documentario su Slow Food, l’associazione di Carlo Petrini che ha lo scopo di ridare dignità gastronomica al cibo, salvandolo dalla logica del profitto. Che altro dire? A lui la parola.

Un profilo eclettico: scrittore, musicista, sceneggiatore. In quale dimensione ti ritrovi di più?
Se proprio devo scegliere dico sceneggiatore. Ma per indole ogni volta che mi sento troppo definito mi viene voglia di fare qualcos’altro. Ora per esempio mi piacerebbe curare la regia di un film, chi lo sa se succederà mai.

Sei autore e cantante di uno dei gruppi storici della scena rock underground, i Mambassa. Quali emozioni provi nel collaborare a questo progetto ormai ventennale?
Affetto, un po’ di nostalgia per quando eravamo venticinquenni, e tante difficoltà, soprattutto logistiche. Io vivo a Roma e gli altri in Piemonte sicché materialmente ci vediamo pochissimo. Le cose si fanno a distanza e io sono una frana con la tecnologia, per di più, il che complica le cose. Ma ci tengo molto a fare uscire entro quest’anno il nostro sesto disco di inediti, perché nel 2015 i Mambassa compiono vent’anni e sarebbe un modo degno di onorare questo risultato. C’è molta ostinazione, in questo obiettivo. Un nostro vecchio amico la chiamerebbe “tigna”.

Quali sono le tue influenze artistico/letterarie?
Non saprei. Non sono un intellettuale, non ho quella testa lì. Non riesco a essere acceso dall’arte concettuale, ho bisogno di farmi emozionare. Per questo mi piace la narrazione, i personaggi ben costruiti, la sapienza di celare il talento attraverso un’onestà di sguardo e di racconto e di non esibirlo mai. Odio il virtuosismo. Soprattutto nella musica. Per me fusion è una parolaccia.

Hai esordito come musicista. Quando hai capito che la musica sarebbe entrata a far parte della tua vita?
Quando ricevetti la assurda telefonata, nel 1996, in cui un amico mi comunicava che Claudio Cecchetto voleva metterci sotto contratto. Mi ci dedicavo seriamente solo da un anno, alla musica, con i Mambassa, anche se suonavo in complessi fin da quando avevo 15 anni. Era, credo, il mio modo per togliermi dai problemi che la mia famiglia attraversava in quel momento e dal senso di asfissia che mi derivava dall’aver vissuto sempre nella stessa piccola città per tutta la vita. Suonavo per pensarmi in maniera differente, ma non credevo di poterne fare un mestiere davvero. Poi arrivò quella telefonata inattesa e spiazzante – per me Cecchetto allora voleva dire tutta quella musica commerciale che snobbavo – e per qualche mese, forse un anno, mi illusi anche che potessimo avere successo, ma quella ubriacatura finì presto e già dopo due anni avevo capito che avrei dovuto puntare su qualcos’altro. Già col secondo disco passammo alla Mescal ma arrivammo nell’ambito della musica indipendente visti con la diffidenza di chi era stato scoperto da un discografico mainstream: peraltro verso Cecchetto non posso che avere simpatia e riconoscenza. Si comportò da ottimo discografico e da gentiluomo.

Cosa ti ha spinto ad approdare all’attività di sceneggiatore?
Avevo sempre sognato di farlo, ma non credevo che ci sarei mai riuscito professionalmente, vivendo in provincia. Avendo fallito nel tentativo di fare della musica un mestiere con cui campare, poi, ero molto scoraggiato, e la prima cosa che feci quando capii che dovevo dare una svolta alla mia vita fu andare a lavorare a Slow Food, che a Bra è una realtà molto solida: inoltre a Slow Food ai tempi lavoravano sia mio padre sia i miei due fratelli maggiori. Per me – che avevo sempre coltivato ambizioni artistiche - era un po’ una sconfitta, ma mi ci applicai molto. Lavorai per due anni, intensamente, in ufficio dalle 9 alle 18 tutti i giorni. Ma intanto continuavo a pensare al cinema e a tener vivi i Mambassa. Fu un corso di tre weekend alla Scuola Holden di Torino e riaccendere in me la voglia di provare con la sceneggiatura. Subito dopo tentai l’iscrizione a un corso specializzato a Roma (la Scuolafiction di Mediaset), e feci tutte le prove di selezione. Quando mi comunicarono di avermi selezionato lo presi come un punto di svolta: mollai il lavoro, feci armi e bagagli e mi trasferii a Roma, con la piccola liquidazione di Slow Food in tasca, un romanzo pubblicato e Mi manca chiunque dei Mambassa in uscita con Mescal. Ci provai. E alla fine andò bene.

Nel documentario Slow Food Story tracci un ritratto di Slow Food ma anche della terra da cui provieni. Come è il legame con la tua terra d’origine?
Il legame è radicato e molto forte: Slow Food è sempre stata per me una sorta di versione estesa della mia famiglia. Per questo ho voluto fare quel documentario. Per mostrare il mio affetto e la mia riconoscenza e il mio senso di appartenenza verso quel mondo, che mi ha formato indelebilmente. Ma forse inconsciamente  per voltare davvero pagina lasciandomelo affettuosamente alle spalle.

Hanno appena trasmesso la serie tv 1992 che ti vede impegnato come sceneggiatore insieme a Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri. Qual è l’idea portante della serie?
Raccontare la storia d’Italia come in un romanzo di James Ellroy, e filtrandolo attraverso lo sguardo di chi è cresciuto a pane e serie tv. 1992 parla degli Uomini Nuovi che, quando il terremoto di Mani Pulite fece crollare un Sistema – la Prima Repubblica – che sembrava eterno, sfruttarono la grande occasione per spiccare il salto verso il potere. Sapendo come poi è andata a finire, non poteva essere che un noir. E’ stato il lavoro più impegnativo e totalizzante della mia vita.

Prossimi progetti in cantiere?
I sequel innanzitutto: sto lavorando a 1993 e a Il Ragazzo Invisibile 2, scritti sempre con i miei impagabili soci Ludovica Rampoldi e Alessandro Fabbri. E a settembre, se ci riesco, il nuovo disco dei Mambassa: Non avere paura, si chiamerà. L’avevo già detto? E’ un bel titolo, no?


Occidente

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