Ian Curtis.
Un’icona, un punto di riferimento, un idolo. Un poeta
maledetto che ha sbagliato epoca in cui reincarnarsi e ha deciso di cantare in
un gruppo punk per dare voce al suo disagio. Un martire dell’esistenzialismo
post moderno. L’uomo che ha trasformato
le ceneri del movimento punk in qualcos’altro.
Fan sfegatato di David Bowie, gira voce che dopo un concerto
si sia portato a casa una bacchetta del batterista quasi fosse una reliquia da
adorare.
Nato nel 1956 nella Manchester operaia, figlio di un
poliziotto, orgogliosamente fiero della sua appartenenza alla working class,
Ian Kevin Curtis ha un apparato emotivo che lo porta altrove, lontano e in
direzione opposta rispetto a ciò che il contesto in cui vive gli richiede per poter essere considerato e inquadrato in
una norma identificabile.
Ian Curtis, come molti altri personaggi del secondo novecento
quali Jim Morrison, Kurt Cobain e James
Dean per il mondo del cinema, si è ritrovato a gestire una sensibilità estrema
che lo porta a farsi soverchiare dalle proprie paure e conseguentemente a voler
fuggire il più velocemente possibile da queste, seguendo una strada infuocata
che lo conduce verso un inevitabile baratro.
Ispirato da Nietzche, Rimbaud e Baudleare scrive testi
intensi, intimisti, intrisi di quella malinconia che quando viene urlata o
sussurrata in un microfono diventa catarsi, simbolo della discesa di un
crepuscolo interiore.
Quando tutti, all’interno della scena controculturale e
operaia dell’Inghilterra degli anni settanta, a Manchester, portano i capelli lunghi e
pogano ai concerti dei Sex Pistols, lui se ne sta in disparte con i capelli
corti e subisce il fascino dei padri del punk, della etica del no future, del
bruciare in fretta.
A quel fatidico concerto parteciperanno anche altri quattro
ragazzi, i quali diventeranno bassista, chitarrista e batterista di una band
che lascerà il segno.
Anche loro ammaliati da quei suoni taglienti e carichi di
furore, si mettono alla disperata ricerca di un cantante per dar vita al loro
progetto.
Qualche tempo dopo li raggiunge Ian, vestito di tutto punto
con un giubbotto di pelle con la scritta ‘Hate’ che significa ‘odio’.
La sorpresa data dallo sconcerto li porta ad arruolarlo come
cantante, anche se non sarebbe male nemmeno
come poeta e fondano un gruppo di nome Warzaw come la canzone di David
Bowie, per via delle tenebrose tinte post-industriali.
Solo che un gruppo di nome Warsaw esiste già, allora Ian
propone un drastico cambio di nome: Joy Division ovvero ‘Divisione della gioia’
tratto dal titolo di un romanzo ispirato ad una sezione dei campi di
concentramento nazisti.
Con il primo ep, An Ideal for leaving, il gruppo ottiene un
dignitoso successo di circuito, affermandosi come degno erede e miglior
interprete dell’ondata post punk.
Ian sul palco canta in maniera lugubre sussurrando le parole,
poi, improvvisamente, parte in una danza che sembra una convulsione epilettica,
come un profeta invasato. Perché Ian soffre davvero di epilessia, male di cui
non trova una spiegazione e che si trascinerà per tutta la sua vita.
Già, la sua vita. Ian non sembra amarla molto, o meglio,
amare le convenzioni con cui la vita si presenta. Si sposa a diciannove anni,
dopo un breve fidanzamento e dopo aver abusato di sostanze di ogni tipo.
C’è qualcosa, della vita, che la sua anima sensibile non
concepisce. Ha tentato di indagare l’inquietudine descrivendola nei testi e
cantandola sui palchi ma non gli è bastato.
Una sera del 1980, quando si trovava a casa da solo, decide
di porre fine alla sua esistenza, seguendo le macabre ombre di James Dean e Jim
Morrison.
In sottofondo un disco di Iggy Pop, neanche a farlo apposta
uno dei numi tutelari del punk.
Quello che Ian lascia, oltre a canzoni che sono delle vere e
proprie poesie che scandagliano le ombre dell’anima, è la sensazione che la
propria sensibilità personale può
tramutarsi in un macigno che ti trascina in un pozzo o in un appiglio che ti
rinforza, insomma un bene da salvaguardare.
Occidente
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